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Requiem di un passato

 

DARK SUMMER

 

Una nuova storia breve che ricompone l’infanzia del geniale e sfortunato comandante Ramsus

 

SCRITTO DA

Kurio Saga

 

Nome reale Kaori Tanaka. In Xenogears si è occupata della definizione originaria dei personaggi.

 

 

Il ragazzo fece un sogno che aveva già sognato molte volte.

Sebbene il climatizzatore avrebbe dovuto essere regolato a perfezione, ciò non impediva all’incubo che gradualmente si tesseva nel suo subconscio di portare lontano il tepore, là dove non poteva raggiungerlo. Attorno a lui la temperatura restava confortevole, ma entrambi i palmi delle mani serrate erano già appiccicosi per il sudore.

Nella stanza in cui ciascuno dormiva, abilmente progettata affinché fosse costellata di delicate curve, persino gli amici in cui riponeva la sua fiducia incondizionata non si sarebbero accorti del fatto che nel profondo del suo sonno egli tremava leggermente. Candidato alla carica di comandante, promesso al futuro di gloria della sacra Solaris... anche nel letto confortevole e immacolato delle camerate della Jugend, però, i suoi denti battevano per il freddo.

Il sogno stava arrivando.

Fu terrorizzato da quell’incubo, che arrivava minaccioso ad avvolgerlo come un’ala silenziosa, disegnando ombre nere come l’inchiostro. Quella stessa vista non lo avrebbe turbato nella veglia, ma lì riusciva facilmente a sconvolgerlo accanendosi contro di lui. Sopra la sua testa, mentre era immerso nelle profonde gole del sonno, la pala del ventilatore che rimescolava lentamente la piacevole aria climatizzata incombeva guardandolo dall’alto.

            Fiuu...

Non avrebbe dovuto udire il rumore della pala, che invece gli sussurrò nel lobo dell’orecchio.

            Arriva quel sogno.

Si irrigidì. Doveva fuggire. Da cosa? Doveva chiudere gli occhi. A cosa? L’incubo, trasformatosi in innumerevoli uccelli neri, lo catturò immobilizzandolo, già vicinissimo. Davanti alla vista gli si parò una grande ombra, e mentre non riusciva nemmeno a urlare fu assalito da un’ondata di calore estivo che in quella stanza non sarebbe dovuto esistere.

            Arriva quella voce.

Come tutte le altre volte in quell’incubo, udì quella voce che lo paralizzava, colmandolo di un terrore senza nome.

            Kahran... Kahran... Kahran... Kahran...

Si turò le orecchie. Escluse la voce che chiamava il suo nome, riecheggiando da ogni parte e da nessuna. Ma non poteva salvarsi da quella voce. Tornò a fargli visita, rispettando la sequenza del sogno tante volte ripetutosi.

 

Nel sogno, si voltò.

Nelle vestigia di un afoso giorno d’estate all’interno del guscio esterno che avvolgeva l’Etemenanki, il sole era perennemente sul punto di calare.

Tra gli edifici che il sole calante tingeva di cremisi, la sua ombra si allungava.

Cercava la palla che aveva perso mentre giocava con gli amici, e camminava tenendo gli occhi sulla strada. Mentre si allontanava, le figure nei dintorni si rimpicciolivano gradualmente fino a scomparire. Giunse a un isolato deserto, ma pur provando ansia la dissimulò, com’è nello stile dei bambini che vogliono far sfoggio di coraggio, e continuò a cercare l’oggetto perduto.

 

Immerso nel buio che scese nel breve attimo dal calare degli ultimi raggi di sole dietro la curva azzurra della terra all’accensione dei lampioni, stava per voltarsi e tornare sui suoi passi, avvertendo una leggera ansia, quando udì quella voce. Spaventato, guardò alle sue spalle verso il proprietario della voce. Nel mezzo delle tenebre si stagliava una sagoma femminile. La sua paura si trasformò in imbarazzo, e la figura rise.

            “È là!”

Kahran si voltò nella direzione che gli veniva indicata. Facendo un lieve cenno della testa alla ragazza che gli aveva indicato la direzione dov’era rimbalzata la palla scomparsa, corse via. Doveva tornare prima che facesse buio.

Si accorse di essere in un luogo che non aveva mai visto. Non si era mai allontanato tanto da casa, e questo lo fece sentire acutamente solo e indifeso. Lì c’era un enorme, grandissimo muro. Dall’altro lato sembrava trovarsi una sorta di discarica; passando tra gli alti cumuli di rifiuti e attraversando con le sue piccole gambe un rigagnolo di fluidi di scarto che scorreva come un piccolo fiume, trovò finalmente la sua palla. Se non si fosse affrettato a tornare, di certo avrebbe ricevuto una sonora sgridata.

Nell’istante in cui girò i tacchi, incespicando tra i rifiuti e il liquame, si immobilizzò. Qualcosa sotto i suoi piedi che lo fissava diritto nelle sue giovani pupille lo avvinse in una sensazione che non aveva corpo. Lo esaminava, emettendo corti respiri rapaci. Per il terrore, Kahran smise di respirare. Era arrivato in un luogo in cui non sarebbe mai dovuto venire. Quel rimpianto gli montò nel petto gradualmente, inarrestabilmente. Ma, allo stesso tempo, sentì che quei momenti stavano svolgendosi in accordo con un piano che qualcuno, da qualche parte, aveva elaborato. Sotto i suoi piedi, sentiva le pulsazioni della cosa. La cosa era un’entità sconosciuta, ma dal lungo tempo trascorso da quell’incubo non riusciva più a capire se la cosa fosse altro da sé, o se fosse diventata egli stesso.

Come un topolino ipnotizzato da un serpente, la mente di Kahran abbandonò ogni pensiero di fuga. Quando si piegò al richiamo che gli ingiungeva di non dare ascolto alla paura, il ragazzo fu catturato dalla cosa.

Spazzatura.

Mentre le sue ossa venivano consumate, Kahran vide il cuore del suo predatore. No, non era esatto. La cosa aveva iniziato a diventare lui stesso. Divorò la sua carne e la sua essenza e si fuse con lui. Un essere difficile a descriversi, una replica della prima forma di vita Caino, una copia, una riproduzione, un umano artificiale imperfetto... spazzatura, spazzatura, spazzatura.

Per poter continuare a sopravvivere dopo essere uscito dal suo habitat ideale, il reattore di supporto vitale, l’umano artificiale aveva bisogno di un nuovo ricettacolo. Un ospite vivente, che avesse carne fresca, ossa, pelle, nutrimento.

 

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